Parole che liberano

L’esperienza di un laboratorio sull’uso del linguaggio in carcere a Bologna

«Gettare il cuore oltre l’ostacolo» è un motto che conosciamo tutti ma che, applicato al carcere, significa accettare le sfide che il contesto offre – ora più che mai suscitate dal caos innescato dalla decisione del Governo sul trasferimento di detenuti minorenni (giovani adulti) alla Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna –, mettendosi a costruire qualcosa di buono. 

Quel «qualcosa» è iniziato il 24 febbraio nella biblioteca del Penale del carcere bolognese: un percorso di tre incontri che hanno per tema: «Come parlare di carcere» e si articolano utilizzando sia la narrazione di storie di vita delle persone detenute, sia il coinvolgimento e le testimonianze di altri soggetti (vittime, famigliari di persone recluse).

L’orizzonte di questo progetto, organizzato dall’Associazione volontari carcere (AVoC) e da Ornella Favero, direttrice della rivista «Ristretti Orizzonti», è quello di aiutare a riflettere sulla scelta dei linguaggi, dando alle parole il peso necessario, con l’obiettivo finale di far comprendere che esse possono pungere, possono far male, ma possono anche risanare e quindi «liberare».

Dei temi che verranno affrontati nel corso delle tre diverse tappe abbiamo parlato proprio con Ornella Favero.

Prima tappa: paura-violenza-vittime

– Quale legame viene intessuto tra questi tre concetti e come mai ritieni sia importante un percorso di consapevolezza sulla violenza agita e subita?

«La prima cosa che in carcere dovrebbero imparare tutti è che cos’è esattamente la paura e come può condizionarti la vita. È nel rapporto degli autori di reato con la società esterna però che si può capire davvero di che cosa si parla quando si parla di paura: può essere significativa la testimonianza della studentessa che ha raccontato di aver scoperto i ladri in casa, e di non riuscire più, da quel giorno, né a restare a casa da sola, né a uscire di sera come faceva prima, oppure la testimonianza dell’insegnante presa in ostaggio durante una rapina, che ha spiegato che gli occhi di quella persona che la teneva ferma con un’arma ce li ha ancora in mente e non riesce, dopo anni, a liberarsene. La verità, che si fa fatica a riconoscere, è che la paura non dura i cinque minuti dell’atto violento, no: la paura poi non smette di condizionarti la vita.

Questo significa per le persone detenute non parlare più con leggerezza di “reati contro il patrimonio”, distinguendoli dai reati violenti, perché dietro quel patrimonio, quell’oggetto prezioso, quella casa svaligiata c’è una persona che ha subito un danno emotivo fortissimo».

Consapevolezza

– Può un autore di violenza essere consapevole del suo agire violento? Ovvero: in che misura le persone che commettono il reato sono a loro volta colpite dalle scelte violente che hanno agito? 

«“Non posso sottrarmi al fatto di essere stato anch’io una belva”: in queste parole di un giovane detenuto c’è la consapevolezza della carica di violenza che molte persone si portano addosso fin dall’infanzia, e che è alla base di tanti reati.

Il tema della violenza dovrebbe essere al centro di un confronto tra il mondo del carcere e quello delle scuole e delle giovani generazioni, ma in realtà non viene quasi mai affrontato sistematicamente nelle carceri, nonostante proprio gli atti aggressivi e violenti siano i comportamenti più diffusi tra le persone che sono finite a commettere reati. È importante allora riflettere di più su aggressività, rabbia, violenza, anche perché chi la violenza ha già dimostrato, purtroppo, di saperla usare deve essere il primo a “deporre le armi”, rinunciando anche alle parole che pungono e offendono. Importante è quindi una riflessione che tocchi anche il tema della violenza verbale».

Il tema delle vittime

– Hai parlato di sensibilizzare le scuole e le giovani generazioni: come reagiscono gli studenti che incontri quando parli loro del carcere e porti delle testimonianze dirette?

«Le domande che fanno gli studenti, quando incontrano le persone detenute, sono dirette, a volte brutali: voi parlate della vostra sofferenza, non pensate mai a quella dei figli delle vostre vittime? 

È una domanda assolutamente legittima e significativa, per questo è importante, sul tema delle vittime, un lavoro con le persone detenute, che ha aspetti diversi: individuazione delle vittime (per esempio, anche i figli delle persone detenute sono vittime), riflessione sui reati cosiddetti “senza vittime” (“reati che ledono beni collettivi o interessi generali”, così per esempio sono definiti i reati di spaccio), strumenti della giustizia riparativa nell’esecuzione penale. Anche perché il confronto e l’ascolto delle vittime, che nelle aule di tribunale non hanno praticamente nessuno spazio, diventano incredibilmente possibili in un luogo come il carcere».

Seconda tappa: ascolto-immedesimazione

– Quando si fa riferimento al tema dell’ascolto ci sono sempre almeno due soggetti in campo: il primo che parla e il secondo che riceve. Come mai ritieni che sia importante l’educazione all’ascolto in carcere, e quali sono i soggetti coinvolti? 

«L’ascolto in carcere è fondamentale, anche perché tanti reati nascono in un certo senso proprio dall’incapacità di ascoltare l’altro, la sua sofferenza, i suoi bisogni (la regola d’oro “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” è una delle regole più inascoltate). Imparare l’ascolto è importante, e non può essere un ascolto distratto, perché le questioni in gioco sono troppo delicate: da una parte le persone detenute “mettono in piazza” la loro vita, i disastri, le sconfitte, gli scivolamenti, le cadute, tutte testimonianze che richiedono di essere ascoltate senza commenti e senza distrazioni, dall’altra la società può imparare ad ascoltare l’altro, il “cattivo”, il nemico, ma anche a esprimere le ansie, le paure, la rabbia di chi subisce i reati».

Come dice Pirandello

– Quanto è importante mettersi nei panni dell’altro?

«L’“immedesimazione” è un’arte, un esercizio che dobbiamo sforzarci di fare anche nelle situazioni più complesse, quando si tratta di immedesimarsi sia in chi ha commesso reati sia in chi li ha subiti, cercando di capirne i sentimenti, le insicurezze, la rabbia.

Se alle persone chiediamo, come dice Pirandello: “Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io”, e quindi chiediamo loro di mettersi al posto nostro e provare non a giudicare, né a giustificare, ma piuttosto a capire i nostri comportamenti, allora bisogna provare anche a immedesimarsi nelle persone ritenute più distanti, che per la persona detenuta possono essere il magistrato che l’ha giudicato, o quello che non ha concesso una misura alternativa, o l’agente che apre e chiude il cancello della cella».

Terza tappa: cambiamento-responsabilità

– I dati sulla recidiva in carcere sembrano parlare chiaro: il carcere non aiuta le persone nel loro percorso e queste ultime finiscono per commettere di nuovo il reato, come in un circolo vizioso. Come reputi sia possibile un cambiamento per le persone detenute?

«La sfida del cambiamento è complicata, da soli non si cambia, il carcere già di per sé è spesso il contrario del cambiamento, perché chiudendo e allontanando dalla società gli autori di reato rende difficile il confronto e il dialogo. Per questo è importante una carcerazione che metta le persone detenute il più possibile a diretto contatto con la società, insegnando così a dialogare, a confrontarsi, ad ascoltare l’altro da sé. 

Dunque, il carcere chiuso è il contrario della rieducazione, mentre un carcere “aperto alla società” è l’unico che rispetta la legge e mette le persone in condizione di rientrare nel “mondo libero” da persone responsabili. Da questo punto di vista, sarebbe interessante approfondire con le persone detenute questo tema: che cosa può far venire voglia di cambiare? Quanto pesano, per esempio, i figli? Lo studio, la crescita culturale possono essere uno stimolo? Quanto sono state invece negative le esperienze fatte in carceri che non hanno offerto nessuna esperienza di risocializzazione-rieducazione?».

«Ho ucciso, ho rapinato, ho fatto»

– Come far acquisire alle persone autrici di reati la consapevolezza della loro responsabilità in quello che hanno commesso?

«“La mia famiglia più di tutti, e fin dal primo momento, non si rassegnava a quanto mi era accaduto”; “Non mi sono mai perdonato e non ho trovato giustificazioni a quanto è accaduto”. C’è un passaggio fondamentale, nel percorso di assunzione di responsabilità delle persone detenute, ed è quello in cui si accetta che certi atti violenti non “accadono” semplicemente; così si passa dal verbo “accadere, succedere”, al verbo coniugato in prima persona: “Ho ucciso, ho rapinato, ho fatto”. 

È un passaggio a cui si arriva se davvero si riesce a fare una carcerazione sensata, a partire dall’applicazione della regola europea che dice che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Per questo in carcere bisogna creare più spazi di libertà e di confronto, che sono gli unici nei quali si può iniziare a diventare persone responsabili: si potrebbe aprire un dialogo su quali azioni sarebbero possibili in carcere per sconfiggere l’infantilizzazione e promuovere invece l’assunzione di responsabilità.

Affronteremo quindi il tema della responsabilità, a partire dal racconto di ogni persona detenuta presente. Il tema sarà: che cosa produce consapevolezza e spinge le persone a guardare in modo critico al proprio passato e a narrare pezzi della propria vita, di modo che la narrazione di certi comportamenti a rischio possa diventare una forma di prevenzione dei reati».